Adolescenza in crisi (1)


1.

Da venti anni a questa parte, il problema dell’adolescenza tiene banco a livello di psicologia, sociologia e psichiatria. Sterminato è il numero dei convegni e delle pubblicazioni dedicati ad esso. La diffusione e la precocizzazione di disturbi psichiatrici nella fascia di età tra i 12 e i 20 anni — con una netta prevalenza delle depressioni, degli attacchi di panico, dei disturbi del comportamento alimentare sulle crisi psicotiche, che pure sembrano esordire con un certo anticipo rispetto al passato — ha prodotto, su tutto il territorio nazionale, la creazione di centri pubblici e la proliferazione di professionisti privati che si dedicano alla cura degli adolescenti.

Che stia avvenendo una mutazione psicosociologica e culturale rispetto al passato, quando l’adolescenza era un’età informe sottomessa al principio di autorità o, più raramente ad essa ribelle, è evidente a tutti. Il significato di questa mutazione però è colto da due ottiche diverse, che, per semplicità, possono essere ricondotte alle due griglie ideologiche attraverso le quali, negli ultimi anni, sta avvenendo la lettura dei fenomeni sociali: il catastrofismo — espressione estrema e quindi un po’ distorta del pensiero critico di ascendenza marxista - e l’ottimismo — espressione estrema e quindi un po’ fatua di una logica adattiva, che non esclude l’evoluzione, di ascendenza popperiana.

Per i catastrofisti, gli adolescenti di oggi sono una generazione di esseri fragili e immaturi, tendenzialmente narcisisti, catturati dalle immagini e dai miti del successo e dell’autorealizzazione, schiacciati sotto il peso di modelli che definiscono come valore primario l’essere qualcuno (che implica il terrore di essere nessuno), carenti di un sistema di valori etici e culturali che consentano loro di vivere se stessi come membri di una comunità, privi di ogni interesse per un progetto di vita che vada al di là del culto del privato e della rete familiare e amicale, intossicati di informazioni di ogni genere ma sostanzialmente ignoranti, vincolati ad un presente che sembra venire dal nulla.

In breve, per i catastrofisti gli adolescenti di oggi sono l’espressione di un mondo disincantato, relativizzato, ossessivamente incentrato sull’individualità, impastato solo di falsi valori e falsi bisogni.

Questa diagnosi impietosa, ovviamente, non è un atto d’accusa nei confronti degli adolescenti, bensì del mondo che li costringe sempre più spesso e in maniera incalzante ad assumere maschere che, promettendo loro di distinguersi dagli altri, in realtà uniformano i loro comportamenti riducendo drasticamente il grado di autenticità personale. Da questo punto di vista, più ancora che a livello adulto, la condizione adolescenziale contemporanea rivelerebbe la contraddizione intrinseca alla nostra società per cui diventare individui integrati nel sistema avviene in difetto d’individuazione.

Certo, leggendo tra le righe degli scritti catastrofisti, qualche velato rimprovero affiora, Il mondo è una fucina di mistificazioni ideologiche, tutte tessute all’insegna della morte delle ideologie e del postmodernismo. Ma farsene irretire completamente non implica forse la rinuncia ad esercitare un minimo sforzo critico? E poi: il disimpegno ideologico e politico, che investe una larga maggioranza di adolescenti, non si fonda di un’accettazione dello status quo immune dallo storicismo ma presentificato sino al punto di ignorare che la realtà nella quale si vive è e non può essere che una realtà storica? Infine, la pressione dell’individualismo, incentrato sulla realizzazione personale, è massiccia. Ma com’è che essa non attiva un senso di ridicolo quando si esprime attraverso il conformismo del gruppo?

Per gli ottimisti, viceversa, il giudizio dei catastrofisti è del tutto sbagliato. Secondo essi — per esempio il Prof. Gustavo Pietropaoli Charmet, autore, con Alfio Maggiolini, di un "Manuale di psicologia dell’adolescenza" uscito di recente — gli adolescenti di oggi "sono ragazzi e ragazze meravigliosi, solo che continuano ad essere giudicati dagli adulti con parametri che non li riguardano. Ciò che fanno è veramente importante: stabiliscono rapporti di gruppo solidali seguendo un altissimo ideale di amicizia; vivono la coppia secondo un galateo amoroso completamente reinventato, basato solo su livelli di autonomia e reciproco rispetto impensabili ai nostri tempi; e il buon lavoro che stanno facendo ci fa supporre che in futuro saranno ottimi genitori". Certo, essi hanno un orizzonte culturale e progettuale, assegnato per altro dai genitori, che non prevede alcun impegno etico. La loro preoccupazione univoca è realizzare se stessi, diventare belle persone, ottenere consenso, essere felici. Questo sentirsi obbligati a riscuotere consensi e a non deludere le aspettative genitoriali "li rende anche estremamente fragili. Cresciuti in situazioni protette, gli adolescenti si ritrovano inadeguati ad affrontare il giudizio negativo: essere respinti li espone a dolorose ferite narcisistiche. Tuttavia, essi non provano sensi di colpa di fronte al fallimento, ne restano semplicemente stupiti, storditi, sbigottiti. E vergognosi."

Non è vero, però, secondo il Prof. Pietropaoli Charmet, che gli adolescenti hanno come unica ambizione il successo spettacolare, legato ai mass-media. E’ proprio la loro vita di tutti i giorni a somigliare spesso ad un reality show dove alla fine o stai dentro o stai fuori; amato o ripudiato per quel che sei. Il pubblico sono i coetanei, il gruppo, gli amici: l’"altra famiglia", dalla quale sono assolutamente dipendenti. Certo questa esperienza ristretta al privato e al gruppo implica una certa disaffezione per il sociale, il politico, l’ideologico. Ma questa restrizione, che induce una certa mancanza di responsabilità nei confronti della società cui gli adolescenti appartengono, è compensata dal loro farsi carico di un compito esaltante: quello di riuscire ad esprimere al massimo grado la propria unicità irripetibile.

Da questo punto di vista, l’impresa cui gli adolescenti (occidentali) avrebbero posto mano è quella di costruire, nella cornice di un mondo in via di globalizzazione, un universo di individui che hanno come obiettivo univoco l’autorealizzazione e la costruzione di microsistemi di gruppo vincolati alla logica degli affetti.

Lo confesso anticipatamente: avrei difficoltà a collocarmi in uno di questi due schieramenti, non fosse altro perché gli adolescenti con cui mi confronto da anni non rientrano nella tipologia da essi descritta. Certo, trattandosi di ragazzi e ragazze con problemi psichiatrici di varia natura, il campione potrebbe essere ritenuto poco attendibile. Potrebbe trattarsi, in breve, di una minoranza di disadattati. Il fatto è che questi ragazzi diventano testimoni credibili allorché, "guarendo", scoprono che gran parte dei coetanei sono pieni di problemi. La definizione del malessere è diversa, ma riconosce un minimo denominatore comune: il vivere in maschera, che qualcuno, avendo appreso il termine in analisi, riconduce al falso io.

Penso che questa testimonianza denunci quanto c’è di panglossino piuttosto che popperiano nell’ottica degli ottimisti. Il migliore dei mondi possibili, con l’unica lacuna di una disaffezione per le sorti del mondo nella sua totalità, che essi vedono profilarsi all’orizzonte in conseguenza di una generazione di adolescenti che mirano all’autorealizzazione e la perseguono sotto forma di affermazione individuale agganciata ad una rete di rapporti amicali e affettivi affrancati dai formalismi, è l’effetto di un’illusione ottica, vale a dire del fatto che essi colgono la realtà del mondo adolescenziale in superficie, e non sanno andare al di là. Rimangono, insomma, suggestionati dalla maschera del falso io. Chiunque si limiti ad osservare gli adolescenti che interagiscono in gruppo, li vede mediamente disinvolti, spigliati, comunicativi, sorridenti, sereni. Se li si osserva meglio, casomai, si rileva anche, in alcune circostanze — quando si tratta di decidere sul da fare per svoltare la giornata o la sera, si nota una certa noia. Se li si conosce da vicino e si riesce ad entrare nelle pieghe della loro anima, l’immagine sciale si dissolve: affiora, al suo posto, l’insicurezza, il vissuto pressoché costante di inadeguatezza, il dubbio sulla propria vera identità, la paura della debolezza e della brutta figura, ecc.

I dati di fatto, del resto, sono difficili da confutare: le statistiche epidemiologiche sulle malattie mentali attestano una crescente incidenza del disagio psichico nella fascia di età dai 12 ai 20 anni; le famiglie sono sempre più in difficoltà nel rapportarsi con figli adolescenti che li pongono di fronte ad atteggiamenti, comportamenti, modi di vedere e di sentire per essi incomprensibili (e quindi inquietanti); gli adolescenti stessi esprimono, quando riescono a liberarsi della maschera che è loro imposta e che si impongono, un malessere profondo e a tal punto diffuso da potersi ritenere epocale.

Tutti si chiedono che cosa stia avvenendo. Le risposte degli specialisti - psicologi, psicoanalisti, pedagogisti, sociologi - sono le più varie. Alcuni sottolineano le carenze affettive delle famiglie, che hanno poco tempo da dedicare ai figli, e, compensando questo difetto con un eccesso di permissivismo e di gratificazioni materiali, finiscono con il renderli fragili e immaturi nell'affrontare le prove della via. Altri rilevano l'incidenza deleteria nella psicologia adolescenziale dei mass-media e della cultura prodotta dai gruppi giovanili, che alimentano modelli culturali marcatamente egocentrici, narcisistici e consumistici, orientando gli adolescenti a calarsi precocemente nella maschera del falso io. Altri, infine, denunciano la crisi dei valori del mondo contemporaneo e il diffondersi del nihilismo come matrice della difficoltà di sviluppare un progetto significativo di vita, un senso di responsabilità personale, ecc.

C'è del vero in ciascuna di queste risposte, ma il problema è di cercare di organizzare un discorso che integri i diversi livelli: quello psicologico e sistemico-familiare, quello socio-culturale e quello storico. Non intendendo scrivere un saggio a riguardo. Mi limiterò, in questi articoli, a focalizzare alcuni aspetti del problema che a me appaiono significativi.

2.

Un punto di partenza è quello di criticare e mettere da parte i luoghi comuni: quelli per intendersi così brillantemente sintetizzati in poche parole dal Prof. Pietropaoli Charmet.

Il primo riguarda le famiglie, che sarebbero inclini a proteggere, gratificare, coccolare i figli per consentire loro di procedere, con calma, verso l’obiettivo dell’autorealizzazione individuale, vale a dire dell’affermazione la più ampia possibile della loro unicità irripetibile. Questo alimenterebbe un certo narcisismo, ma contribuirebbe anche a dotare gli adolescenti di un rilevante grado di autostima e di sicurezza, a fare sentire loro che la vita non è, com’è stata casomai per i nonni e i genitori, una dura lotta per sopravvivere, ad orientarli verso un regime di felicità individuale, ecc. In quest’ottica, la famiglia sarebbe divenuta funzionale ad un processo s’individuazione.

Quanto c’è di vero in questo? Ben poco. Si confonde, al solito, l’apparenza con la sostanza.

La famiglia, indipendentemente dalla diversa psicologia dei suoi membri adulti, continua a funzionare, lo sappia o no, come un'agenzia sociale cui la comunità o, meglio, lo Stato affida il compito, in collaborazione con la scuola, di produrre cittadini. In quanto agenzia sociale, essa non può prescindere da quest’investitura e da questo dovere. Ma cosa significa, in ultima analisi, produrre dei cittadini? Né più né meno allevare i figli con l'intento di trasmettere loro sani principi, indurre un certo rispetto dell'autorità, delle regole e delle norme sociali, fare acquisire loro moduli comportamentali adattivi, guidarli verso l'indipendenza personale e l'integrazione sociale. La famiglia insomma è la cinghia di trasmissione e di riproduzione della normalità o, meglio, della normalità dominante, storicamente data.

Non potrebbe essere diversamente. Se una famiglia allevasse i figli inducendoli a vivere tutti i valori culturali come relativi e dubitabili, alimentando sistematicamente un atteggiamento critico nei confronti dello Stato, dell'autorità, delle norme e delle regole sociali, sollecitandoli a cercare la loro strada senza alcuna indicazione, ecc., essa presumibilmente produrrebbe dei disastri. Come ha dimostrato l’esperienza di parecchie famiglie i cui genitori sono stati influenzati dalla cultura degli anni ‘70, un nuovo modello educativo non può essere adottato, senza rischi, indipendentemente da un contesto sociale che lo convalida ed è programmato per consentirne la realizzazione.

Occorre dunque partire dal presupposto che la riproduzione sociale, uno dei cui aspetti è la produzione culturale di cittadini, assegna alle famiglie fini che sono espressivi dell’ideologia e dei valori dominanti che presiedono una determinata organizzazione sociale. L’unicità e l’irripetibilità dell’individuo, intesa non in senso neurobiologico (piano sul quale è un’ovvietà), bensì sul piano della personalità è di fatto il valore centrale della nostra cultura. Non c’è da sorprendersi che le famiglie se ne facciano carico e l’alimentino. Il problema è che esse identificano l’unicità e l’irripetibilità dell’individuo con il grado d’integrazione sociale che riesce a raggiungere. Adottano insomma una scala sociale piuttosto che una scala antropologica, cadendo tutte nella trappola sinteticamente illustrata da Rousseau laddove egli scrive che costruire un cittadino e costruire un uomo non sono la stessa cosa.

La funzione della famiglia come agenzia sociale di riproduzione della normalità è meno evidente nella nostra società rispetto al passato. I rapporti tra genitori e figli sono divenuti più intimi, la comunicazione tra loro è più aperta, la contrattazione sui doveri e sui diritti più paritaria. Sembra, insomma, che i genitori ascoltino i figli, cerchino di capire le loro esigenze, tendano ad aiutarli a costruirsi una personalità libera e autonoma. Per alcuni aspetti, che siano avvenuti dei cambiamenti nel rapporto comunicativo (oltre che gerarchico) tra genitori e figli è fuori di dubbio. Però, se si esaminano le cose un po’ più da vicino riesce chiaro che questi cambiamenti non hanno modificato la funzione sociale della famiglia, che tende ad utilizzarli per guidare comunque i figli verso l’integrazione sociale.

In altri termini, l’atteggiamento psicologico dei genitori è andato incontro ad un rilevante cambiamento, ma la loro funzione, inerente ruoli socialmente codificati, non è mutata più di tanto.

C'è una realtà, a riguardo, di cui non si può non tenere conto. Con tutti i suoi limiti, che variano da società a società, la cultura identitaria, quella sulla quale si basa l'unità, la coesione e il funzionamento di una determinata società, è un calco all'interno del quale ogni essere umano deve calarsi per raggiungere lo statuto minimale di animale culturale, vale a dire un grado minimo di soggettività e di autoconsapevolezza. Certo, tale calco non dovrebbe essere tale da impedire al soggetto, raggiunta un'identità sociale, di procedere verso una sua identità individuale, differenziata e distinta da tutte le altre. Da questo punto di vista, si può ritenere che la famiglia odierna non sia molto incline a favorire l'individuazione: essa si interessa più all'attribuzione di ruoli e alla promozione di comportamenti socialmente adeguati che non al libero sviluppo della personalità. E' però inconfutabile che, nella nostra società, essa, se non eccezionalmente, non tende ad ostacolare o ad impedire questo processo.

La famiglia normale, insomma, anche se è una banalità dirlo, normalizza. E nel nostro mondo la normalità coincide con il modello dell’individuo sicuro, spigliato, intraprendente, padrone di sé, socializzato, aperto alla novità, ecc. Le matrici di questo modello sono antiche, essendo riconducibili all’originario modo di essere borghese caratterizzato dal controllo razionale sul comportamento e sulle emozioni, vale a dire sulla padronanza di sé. Certo, il modello borghese era caratterizzato agli esordi da una certa "seriosità" e compassatezza, che gli adolescenti rifiutano. Il problema è che esso si è semplicemente trasformato in virtù dell’innesco di valenze consumistiche ed edonistiche che hanno soppiantato lo spirito di sacrificio, sostituendo ad esso un’affannosa ricerca di successo non più univocamente riferita al lavoro ma all’immagine sociale.

Alla luce di questo modello postmodernista, l’autorealizzazione individuale si pone come un obiettivo che postula la competitività, il darsi da fare: ma si tratta di una competitività a tutto campo che non fa immediatamente riferimento allo studio e al lavoro (dimensioni che rimangono attraenti solo per gli adolescenti perfezionisti). Essere "qualcuno", ad ogni costo, è l’obiettivo talora inconsapevole degli adolescenti di oggi: obiettivo che recepisce l’istanza borghese della mobilità sociale verso l’alto, ma l’affranca dal senso del dovere e dallo spirito di sacrificio che l’ha lungamente governata.

A questo occorre aggiungere un dato che gli psicologi cognitivisti e non pochi sociologi tendono sistematicamente a trascurare. Analizzare il processo della riproduzione sociale, vale a dire della produzione dei cittadini, sotto il profilo comunicativo tra le generazioni, rischia di non tenere conto di un aspetto non meno importante. Tale aspetto la psicoanalisi lo ha sempre intuito, ma è stata la nuova storia francese a dare ad esso il suo giusto valore.

La riproduzione sociale avviene anche attraverso la comunicazione non verbale e addirittura la comunicazione inconscia. In virtù di questo, tutto ciò che è depositato nell’inconscio genitoriale — opinioni, tradizioni, valori morali, pregiudizi, ecc. — si replica inesorabilmente nell’inconscio dei figli. Perché quest’aspetto è importante? Perché permette di comprendere che la personalità degli adolescenti di oggi è, inesorabilmente, una miscela un po’ tossica di tradizionalismo e di postmodernismo, vale a dire di valori, spesso misconosciuti, antichi come il cucco, e di "nuovi" valori.

3.

Il secondo luogo comune riguarda appunto la capacità degli adolescenti di oggi di produrre una loro cultura, un loro linguaggio, uno stile di vita differenziato, una visione del mondo "altra" rispetto a quella della generazione precedente. Se si mettono tra parentesi i dati esteriori (abbigliamento, tatuaggi, piercing, ecc.) che lasciano il tempo che trovano, quelli rilevanti si riducono a due: la più o meno assoluta indifferenza per la dimensione ideologica e politica della vita e l’enfatizzazione dei rapporti di gruppo. Per quanto riguarda il primo aspetto si danno rilevanti eccezioni, riconducibili per un verso al movimento no-global e per un altro al volontariato di matrice cattolica, che, almeno in parte, partecipa anche al primo. Si tratta di due fenomeni molto significativi, ma che, per quanto le loro manifestazioni pubbliche colpiscano l’opinione pubblica, sono assolutamente minoritari rispetto alla popolazione giovanile.

La maggioranza degli adolescenti non vuole sentire parlare di impegno, di prese di posizione, di scelte ideologiche. Pensa che cose del genere esprimano un atteggiamento di idealismo infantile. Essi si attengono al principio che il mondo è così com’è e nessuno, tanto meno loro, ci può fare nulla. E’ l’impotenza di fronte ad una realtà vissuta nella sua opaca compattezza che li demotiva. Al fondo di questa percezione del mondo come non scalfibile, c’è la destorificazione, il percepire la realtà non qual essa è — un prodotto storico -, bensì come una struttura determinata e governata da poteri forti, clientele, lobbies, ecc. contro le quali non c’è nulla da fare.

L’unico rimedio all’impotenza è la realizzazione di sé nel gruppo. Gli adolescenti di oggi vivono letteralmente intruppati, in una sorta di perpetua interfaccia comunicativa che si avvale, tra l’altro, dei telefonini, dei computers, ecc. Quest’esperienza di socializzazione non può però essere valorizzata più di tanto, perché manifestamente essa riconosce come motivazione di base la paura di stare da soli.

Si può pensare che tale paura sia abbastanza normale in un periodo della vita in cui, allentandosi il bisogno di conferme da parte degli adulti e non disponendo ancora l’adolescente di una personalità autonoma, egli ha la necessità di assicurarsi le conferme dei coetanei.

Ciò è senz’altro vero, ma la difficoltà estremamente diffusa tra gli adolescenti di stare da soli, di raccogliersi e di riflettere, che in molti casi giunge al livello di una vera e propria fobia (l’autofobia), esprime qualcosa che va al di là del bisogno naturale di essere confermati. Essa attesta che lo star da soli, ovvero lo stare con se stessi è univocamente spiacevole. Perché?

Qui si giunge ad uno dei nodi della questione adolescenziale, che io ritengo particolarmente importante e che continua ad essere ignorato dagli specialisti. E’ il "buco nero" di cui ho parlato in un altro articolo. Lo stare con se stessi porta immediatamente a contatto con i contenuti dell’ansia esistenziale intrinseci ad ogni esperienza umana, vale a dire la vulnerabilità (la possibilità di soffrire), la precarietà (la contingenza dell’esperienza individuale) e la finitezza (il destino mortale). Nella misura in cui sono rifiutati, questi contenuti sottendono l’autofobia. Tale rifiuto si spiega facilmente.

Non solo le famiglie, in conseguenza del calo della natalità, tendono ad alimentare nei figli, facendoli sentire infinitamente importanti, una dimensione narcisistica. E’ evidente che per ogni genitore il figlio affettivamente ha un valore unico. Il narcisismo del figlio non deriva, però, dal sentirsi amato, che corrobora il sentimento di sicurezza personale, bensì dall’attribuzione di qualità spesso inesistenti e di un destino eccezionale. Come se questo non bastasse, è la cultura contemporanea che alimenta il narcisismo in riferimento al fatto che l’alternativa al diventare "qualcuno" si pone nei termini dell’essere nessuno.

Ora, se un’adolescente non ha una fede religiosa, che lo fa sentire importante perché la sua vita rientra in un progetto trascendente, è inevitabile che egli, raccogliendosi con se stesso, scopra di essere nessuno, vale a dire di essere insignificante oggettivamente come qualunque altro individuo.

E’ dall’insignificanza ontologica che gli adolescenti fuggono immergendosi nelle relazioni di gruppo. Coloro che non ce la fanno, cadono per forza nel nihilismo perché la loro individuale insignificanza diventa una chiave interpretativa di tutta la realtà.

E’ evidente che c’è una trappola culturale nella quale gli adolescenti di oggi cadono quasi senza scampa. Lo stesso mondo che li sollecita a perseguire l’obiettivo della realizzazione al massimo grado della loro unica e irripetibile esperienza offre loro un sistema di valori laici, secolarizzati, che, per essere vissuti pienamente nel paradosso ad essi intrinseco per cui l’insignificanza ontologica viene riscattata dal significato che l’individuo riesce a riversare nella propria esistenza, richiedono un maturità e una capacità riflessiva che agli adolescenti difetta e che nessuno si sforza di alimentare in loro.

La nuova cultura giovanile di gruppo è null’altro che un patetico aggrappamento alla zattera della socialità di esseri che sanno e sentono di stare sospesi sull’abisso dell’insignificanza ontologica.

Essere qualcuno convivendo con l’intuizione, radicata nelle viscere della mente, di essere nessuno: questo è il problema degli adolescenti di oggi, eccezion fatta per una minoranza che rimane salda nelle sue convinzioni religiose. Essere qualcuno — aggiungo — prescindendo dallo sforzo vano di rendersi autentici, che richiede per l’appunto il confronto con la vulnerabilità, la precarietà e la finitezza che restituiscono immediatamente la contingenza dell’ente individuale. Non c’è da sorprendersi che questo compito, eccessivo in rapporto all’età, orienti i più verso la condizione del falso io: falso non solo sul registro sociale, laddove si tratta di mascherare e occultare la propria umana debolezza, ma anche su quello interiore, laddove si tratta di occultare quella debolezza anche a se stessi.

Dicembre 2004